Psicoterapia e depressione
I diversi trattamenti della depressione: dalla depressione nevrotica alla sindrome maniaco depressiva
Esistono forme depressive che rispondono bene ad un lavoro con la parola ed altre che restano impenetrabili a qualsiasi tentativo dialettico.
In entrambe le situazioni il paziente può esprimersi senza difficoltà, anche in maniera fluida e dettagliata. Ciò che segna una differenza è l’uso che questi riesce a fare di ciò che viene detto all’interno della relazione con il terapeuta.
Nella depressione nevrotica, legata ad un conflitto inconscio fra esigenze dell'Io e motivi inconsci, l'elaborazione mentale idelle questioni problematiche rimaste in sospeso ed irrisolte in genere porta alla guarigione completa. Non mancano momenti di stasi, resistenze e regressioni ma in genere esse possono, almeno potenzialmente, essere superate.
Nella depressione psicotica al contrario la guarigione non può avvenire in toto perchè il nodo di fondo non può essere sciolto. La psicoterapia aiuta a contere i sintomi, ovvero le manifestazioni più patologiche e a ritrovare un buon compenso emotivo, basato non sul cambiamento profondo e radicale ma sulla ripresa di una vita accettabile (se non addirittura serena) sia sul piano relazionale che lavorativo.
La dinamica di cura e la guarigione nella depressione nevrotica
Nella depressione di matrice nevrotica il paziente, una volta sperimentato l’effetto rinfrancante della comunicazione e dell’ascolto, inizia spontaneamente ad elaborare in forma più complessa le proprie affermazioni, inizialmente perentorie e autoreferenziali. Si appassiona abbastanza rapidamente ad un lavoro di ricerca che, pur andando incontro a blocchi ed impasse, non si esaurisce.
Rilanci, nuove visioni, prese d’atto via via scollano identificazioni auto sabotanti e aprono la via al cambiamento, in una ripresa del flusso vitale disturbato da interferenze per così dire “esterne”.
Cattivi incontri, frustrazioni prolungate, eventi dolorosi ad un certo punto della vita possono innescare reazioni depressive, soprattutto se esse erano state sperimentate in epoche precedenti, durante l’infanzia o l’adolescenza.
Vecchie questioni mai del tutto elaborate possono così risvegliarsi a causa della pressione di eventi sfavorevoli. Opportunamente messe a fuoco grazie all’occasione offerta dalla psicoterapia perdono parte del loro potere patogeno, venendo integrate in maniera nuova nella coscienza adulta del soggetto.
L’effetto “risveglio” è dunque il risultato di quest’opera di “digestione psichica” che avviene nella stanza d’analisi insieme al terapeuta. Un’esperienza che coinvolge intellettivamente ed emotivamente, da cui infine si esce trasformati. La morsa della depressione si allenta, al ripiegamento luttuoso e autocommiserativo segue una ripresa d’energia.
Quanto più il lavoro é profondo tanto più il benessere ritrovato risulta stabile nel tempo, proprio perché agganciato a fondamenta solide e non semplicemente ad effetti suggestivi. La persona ha elevato il proprio livello di consapevolezza e ciò le resta come una ricchezza a cui attingere nei momenti di difficoltà che inevitabilmente si ripresenteranno.
All’interno delle depressioni nevrotiche esiste tuttavia una cerchia di pazienti che, pur analizzando minuziosamente se stessi, pur avendo tutte le potenzialità di fare un buon uso della parola, non vogliono assolutamente mollare la propria condizione di “depressi”. Il tornaconto secondario offerto dalla loro sofferenza sbaraglia tutti i motivi che porterebbero alla guarigione, tenendo fermi al punto di partenza per anni. Questo fenomeno, già individuato precisamente da Freud, mette in scacco la terapia finché essa o si interrompe o va incontro ad una svolta, quest’ultima merito di un incontro felice fra cedimento delle difese del paziente e sensibilità e prontezza dell’analista.
Il trattamento e il contenimento della depressione psicotica
Esiste poi una seconda forma di depressione, trattabile ma non curabile una volta per tutte. È la depressione così detta “endogena” o di matrice psicotica. Essa si differenzia da quella nevrotica sia per intensità che per causalità psichica.
L’intensità di questo tipo di depressione è insopportabile, tant’è che la maggior parte dei tentativi di suicidio si spiegano come modalità ultime per silenziare lo strazio intollerabile del dolore psichico.
Una metafora frequentemente utilizzata da chi ne è colpito è quella dell’incendio. Qualcosa come un incendio divampa nella mente, brucia, ustiona, soffoca, scarnifica, getta nel terrore più inimmaginabile. Allora i gesti estremi diventano comprensibili così come lo è l’atto di buttarsi dalla finestra di chi in una stanza è incalzato dalla fiamme senza altra possibilità d’uscita.
Anche queste situazioni possono seguire ad eventi frustranti, tuttavia la sproporzione fra congiuntura sfavorevole e scatenamento della crisi è enorme. Inoltre il legame con eventi negativi può anche non esserci affatto e l’acuzie presentarsi in un momento di calma apparente.
Colpisce allora delle depressioni psicotiche l’intensità (che si accompagna spesso a tematiche deliranti e ad allucinazioni) e l’assenza di perché che le giustifichino.
Tuttavia ad un’indagine più approfondita le storie di vita dei melanconici sono segnate precocemente da gravi perturbazioni nel rapporto con le figure genitoriali. Madri malate, madri abbandoniche, madri fredde o al contrario troppo ingombranti e padri per lo più assenti, inaccessibili, deboli o violenti o entrambe le cose. Una frattura avvertita nettamente nell’infanzia spesso poi dimenticata, solo superficialmente superata, isolata dalla coscienza ma attiva come un vulcano apparentemente dormiente.
Certo, si potrebbe obiettare che queste storie sono molto simili a quelle di molti nevrotici che, pur sintomatici, non arrivano mai a scompensare psicoticamente. Questo è uno dei grandi misteri della psichiatria e della psicoanalisi, a cui varie correnti di pensiero tentano di dare spiegazioni più o meno parziali. Predisposizione genetica? Vulnerabilità costituzionale?
La psicoanalisi lacaniana parla di “forclusione del Nome del Padre”. Quando si resta in balia di una madre squilibrata, quando il padre (inteso come qualsiasi cosa possa trattare la follia materna) viene radicalmente meno, si viene esposti senza protezioni ad una potenza psichicamente distruttiva e annientante. “Io non sono niente” è il mantra mortifero del melanconico, incollato alla percezione che il suo essere coincida con uno scarto, una cosa inutile, informe e putrida.
L’evidenza del disastro avvenuto la si ha quando le prime circostanze della vita adulta portano ad occupare posizioni di responsabilità. Nel momento in cui si è chiamati nei modi più disparati ad un’esposizione in prima persona avviene il crollo, a volte sotto forma di un’allucinazione del proprio corpo (o di una parte di esso) marcescente. Angoscia e disperazione toccano picchi inimmaginabili, che necessitano trattamenti in primis di natura sanitaria.
La psicoterapia non può dunque guarire nè sanare ferite insanabili di tale portata ma le può “trattare”, dunque lenire.
Innanzitutto riconoscendole, senza sottovalutazioni o incitazioni bonarie, consigli inutili o interpretazioni selvagge. Ascoltare il melanconico vuol dire essere disposti a farsi carico di un po’ della sua disperazione. Vuol dire potergli offrire un’immagine di amabilità di cui non ha mai potuto beneficiare e di cui probabilmente non beneficerà nemmeno in virtù del nostro aiuto. Ma noi saremo lì, docili, a disposizione, per essere usati nella maniera a lui più consona, nel tentativo di abbassare la temperatura nella stanza in balia delle fiamme. La parola non servirà tanto per scavare, attribuire un senso, ricordare, elaborare ma più modestamente farà da ponte per un riconoscimento autentico, variamente connotato di stima e di simpatia umana.
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