Depressione o scarsa volontà?
La depressione non significa non volersi impegnare
“Sono sempre stato un bighellone” mi ha detto recentemente un paziente con un certo tono di auto rimprovero durante uno dei primi incontri.
Voleva spiegarmi il motivo per cui chiedeva aiuto, una cronica difficoltà a portare a termine le cose, ma è finito con il farlo attraverso il ricorso ad una definizione della propria persona, per altro squalificante.
Il ragazzo era abituato fin dai tempi della scuola a sentirselo ripetere: non hai forza di volontà, sei pigro, non hai voglia di fare niente, come se fossero colpe e difetti della sua persona.
In realtà il problema della depressione non è la scelta cosciente di non applicarsi. La persona vorrebbe darsi da fare ma non riesce, è bloccata, congelata. Alla base di tutti i suoi fallimenti c'è un'idea inconscia pervasiva, ovvero la convinzione che nulla valga la pena perchè la vita non ha senso.
In psicoterapia si cerca di agire a livello di questo ragionamento nichilistico, sia attraverso il dialogo sia attraverso un uso "tecnico" della relazione, di cui si mette in valore l'aspetto di stimolo e di confronto rispetto a quello del mero appoggio consolatorio (che rischia di colludere con il vittimismo e il compiacimento del depresso).
L'approccio autosvalutante nella depressione
La modalità auto svalutante tipica del paziente citato inevitabilmente porta fuori strada, impedendo una visione più complessa e lucida della condizione lamentata. Ed essa è riscontrabile spessissimo proprio in persone che soffrono di disturbi dell’umore, inclini ad attribuire la causa delle loro défaillance nella vita ad un supposto difetto ”morale”.
I loro tentativi di fronteggiare le ripetute delusioni a cui vanno incontro si dividono tra la constatazione desolata di non valere nulla e la ricerca di giustificazioni superficiali, finalizzate a proteggere dall’incontro con tale presunta indegnità.
Accusa feroce di sè e diniego sono in effetti i due poli tra cui oscilla l’atteggiamento di chi soffre silentemente di depressione. Il “male oscuro” non va infatti inteso solo come “umor depresso” , ovvero come tendenza al pessimismo, alla tristezza e alla chiusura in se stessi.
Esso determina anche dei veri e propri cali di energia psichica, che si traducono in periodica incapacità di compiere delle azioni, anche le più semplici e banali, e di concentrarsi su compiti e obiettivi.
Più la depressione è forte, più guadagna terreno nella psiche, più agisce in sordina senza venir riconosciuta e smascherata, più i momenti di paralisi si fanno frequenti, intensi e pervasivi.
Chi ne è dominato infatti è come soggiogato da forze che non dipendono dalla propria volontà ma a cui è talmente abituato da non riuscire nemmeno a identificarle e vederle.
Così finisce per mettere la testa sotto la sabbia o per attribuire la colpa dell’inerzia ad una propria incapacità essenziale, per dirsi “sono fatto così”, per rassegnarsi a non concludere, a non stringere risultati, a non raggiungere traguardi, ad accontentarsi, ad abituarsi a non afferrare ciò che si desidera dalla vita.
Il ragionamento inconscio sull'insensatezza della vita nella depressione
E non sono i mediocri a venir colpiti maggiormente da dinamiche simili. Per qualche enigmatica ragione sono soprattutto le persone intelligenti e dotate ad andare incontro a problemi di natura depressiva.
Probabilmente perché l’intelligenza porta a farsi molte domande e ben presto chi ne è provvisto percepisce acutamente l’insensatezza della vita e la “vanità del tutto”, sviluppando conseguentemente una visione nichilistica.
I bruschi cali di energia si potrebbero spiegare allora come una sorta di arresto nell’investimento motivazionale verso qualcosa in risposta ad un ragionamento inconscio del tipo “tanto tutto passa, tutto è illusione”.
Un auto sabotaggio che origina da pensieri formulati sotto la soglia della coscienza, e che vanno a bloccare ogni slancio vitale costruttivo.
Perché persistere se tanto tutto è destinato a perire? Che senso ha creare, se poi l’opera verrà inghiottita dal tempo? Perché amare se poi l’amore deve morire?
Il rimuginare è un altro tratto tipico: il pensare e ripensare, tendenza molto intellettuale e magari anche interessante ai fini speculativi, appare però sterile a livello concreto, a livello cioè dell’azione e della decisione.
Un pericoloso autocompiacimento si impadronisce del pensatore immobile, rendendolo ancora più statico e saldamente ancorato alle proprie zavorre.
Per guarire sembra dunque necessario lo sviluppo della presa di coscienza profonda di questi circoli viziosi, inquadrati tramite uno sguardo che si scolla da se stesso, tramite cioè una spersonalizzazione, uno sforzo di oggettivazione e il riconoscimento del trastullo mentale e delle sue peculiarità invischianti.
Ma poi si entra in un territorio che esula la psicologia. Come tenere insieme infatti la lucidità (che ci costringe ad ammettere la ripetitività e insensatezza delle albe e dei tramonti che si succedono indifferenti alle cose umane) e la fede, la speranza che valga comunque la pena partecipare attivamente all’enigmatico gioco?
A questo livello le cose si complicano parecchio, perché si tratta in ultima analisi di una scelta. Vivere o morire.
Il depresso vorrebbe disperatamente vivere ma…Non ne ha il coraggio come si dice comunemente? E poi cos’è il coraggio se non fede che andrà bene, in ogni caso, anche se andrà male?
Lo slancio che dura nel tempo, la sopportazione della frustrazione, il tenere rispetto a obiettivi e propositi, il concedersi di cercare ciò che si desidera, il provarci davvero ogni volta si rinnovano anche dopo i fallimenti perché comunque, ciò che sostiene chi insiste, è la credenza nella forza dell’amore e della positività.
La psicoterapia della depressione: limitare l'appoggio e la passività del paziente
Le acque della psicologia qui si confondono con qualcos’altro, e i limiti dell’arte terapeutica appaiono lampanti.
È possibile infatti “infondere” una fiducia di questo genere? Non c’è il rischio che il paziente si agganci alla vitalità e alla visione del mondo dell’analista in maniera passiva e dipendente?
Assorbire i raggi caldi della terapia fa bene o nel lungo fa male? Come regolare il flusso di aria calda?
L’esperienza insegna che un test di aria fredda è necessario per mobilitare una risposta schietta da parte del soggetto sofferente di depressione.
Se questi non abbandona la terapia a seguito di uno stop di supporto e di riconoscimento significa che qualcosa si è mosso in autonomia (a prescindere dall’effetto di riscaldamento dovuto al terapeuta).
Qualche passo nell’analisi si comincia a farlo da soli, il nichilismo risparmia il luogo della terapia e si fa strada la sensazione che ne valga comunque la pena, nonostante i limiti della pratica.
L’andare avanti nella terapia allora può preludere o avvenire in parallelo ad una ripresa di energia fuori dalla stanza d’analisi.
Altrimenti l’uscita è inevitabile. La delusione si impadronisce del depresso e la terapia si fa stantia e monotona come il suo elucubrare senza fine.
Egli così abbandona l’ennesimo campo dopo aver provato, per l’ennesima volta, la futilità dei suoi tentativi di costruire qualcosa che regga saldamente a noia e disfattismo.
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