Depressione e perdita: come uscirne?
La perdita come innesco della tristezza comune o della depressione nevrotica
La perdita, di una relazione, di un lavoro, della salute, di una persona cara può sospingere verso lo sviluppo di affetti depressivi. Ciò in genere accade quando la tristezza non viene elaborata, non viene cioè utilizzata come strumento conoscitivo per capire cosa ci sta succedendo nel profondo.
Quando la tristezza è accolta i ritmi rallentano e ci si dà la possibilità di fermarsi un attimo, di fare il punto sulla situazione emotiva interna e sul modo con cui stiamo vivendo la nostra vita. Nello stato contemplativo della tristezza possiamo non solo permettere alla ferita di cicatrizzarsi ma lasciare anche che nuove idee e nuovi progetti affiorino alla mente, in modo da ripartire risanati e con uno slancio in più.
Nella depressione nevrotica invece la condizione di tristezza è rifiutata totalmente, non si vuole assolutamente soffrire, soffrire non è tollerabile. Così non ci si guarda dentro, si va avanti, si cercano distrazioni, mentre nel profondo il malessere cresce, monta, si fa sordo e invischiante. Allora si impongono sempre più forti sentimenti di sfiducia e di rabbia, che portano verso un negativismo cronico e un nichilismo freddo che impedisce ogni gioia di vivere.
La tristezza non è la depressione
La tristezza è la prima reazione emotiva di segno negativo a seguito della mutilazione che si subisce nella perdita. Ma essa non coincide con la depressione, sebbene vi si sovrapponga.
Perché si installi una depressione bisogna che la carica vitale e le capacità di reazione siano soffocate quotidianamente, per un lungo lasso temporale.
L’immobilismo di una “giornata no”, la percezione di un calo di energie rispetto al solito piuttosto che l’umore un po’ malinconico e poco entusiasta non rappresentano di per sè dei segnali allarmanti. Anzi, essi costituiscono una risposta congrua ad un periodo difficile, nella misura in cui il “sottotono” umorale permette la riflessione, il raccoglimento necessario a metabolizzare psichicamente l’evento doloroso.
La tendenza moderna a “medicalizzare” le sfumature malinconiche, a volerle trattare a tutti costi come qualcosa da estirpare non tiene conto di questo fatto, ovvero della necessità della tristezza per il nostro cervello, per l’attivazione di processi introspettivi di natura autocurativa.
La tristezza consente infatti di tacitare gli stimoli sensoriali, per favorire la concentrazione verso l’interno. Negarla, reprimerla in nome della necessità urgente di “voltare pagina”, di dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle significa di fatto perdere una possibilità di espansione della coscienza.
Essere vivi infatti presto o tardi confronta con la perdita, l’abbandono, lo sfiorire degli ideali di prestigio e di salute. Siamo creature temporanee, il discorso sociale dominante invece ci illude con la promessa di un eterno presente euforico e spensierato, rendendoci via via sempre più inetti e insensibili rispetto al significato profondo del nostro esserci.
La tristezza allora non è solo normale ma anche istruttiva e benefica ai fini di una crescita interiore e di una maturazione della personalità. Qualsiasi uomo o donna che entrano a pieno titolo nella maturità non devono ciò all’età anagrafica (si può essere giovani e maturi così come anziani e terribilmente infantili), ma all’essere stati investiti da un dolore grande e poi all’esserne usciti trasformati in meglio.
La depressione nevrotica
Il patologico, e con esso la depressione, scatta al contrario quando il dolore viene dissimulato, quando gli viene impedito di esprimersi totalmente. Allora esso non cessa di agire negli strati profondi della mente, vi si annida permanentemente, sebbene esternamente possa non risultare visibile agli occhi degli altri.
La depressione esprime un rifiuto “tout court” della ferita della perdita, dello strappo doloroso da ciò che si considerava permanentemente acquisito.
La tristezza non innesca nessun processo curativo perché non è accettata, è rifiutata con tutte le forze, mentre la mente continua a ritornare al passato precedente allo strappo torturandosi e andando in loop sul pensiero tossico per eccellenza: “perché proprio a me”.
Tale pensiero risulta sterile e vittimizzante. La persona si convince di essere sfortunata, si autocompatisce, si considera un essere ormai inutile e destinato allo scacco perenne.
Così perché alzarsi dal letto? Perché darsi da fare se tanto la sfortuna si accanisce contro? Perché reagire se non sarà mai più come prima?
Si scatena in questo modo un circolo vizioso pericolosissimo, per cui la vita diventa un trascinarsi, un vivere senza slanci e senza passione, nella rabbia e nella recriminazione rispetto alle ingiustizie subite.
Anche il lavoro psicoterapeutico, quando viene intrapreso, si blocca in questo pantano di lamenti, d’invettive e d’autocommiserazione.
Guardare al passato non serve a niente, anzi, fomenta ancor di più la rabbia per come sono andate le cose. Scoprire i perché antichi alla base dello sviluppo di tale “pessimismo cosmico” imbestialisce anziché innescare degli insight costruttivi. Anche il terapeuta può diventare oggetto di svalutazione, se non ha la sensibilità di non spingere su determinate corde.
Insistere con un depresso nel fargli aprire gli occhi sulla propria condizione vittimistica, significa dal suo punto di vista sminuire la portata del suo male.
Nella depressione la sfiducia nella vita e negli altri raggiunge vette abissali. Perciò è importantissimo che in psicoterapia si possa venire accolti e accettati, per non chiudersi ulteriormente a riccio.
Solo dopo la conquista della fiducia, grazie all’attaccamento sviluppato nel transfert terapeutico, si può garbatamente agire nella direzione di far vedere altre possibilità (oltre a quelle della fine del mondo, del “tutto merda” ecc…). Il depresso infatti a vedere i mali del mondo è molto bravo, non va svalutato in questa sua oggettiva lucidità.
Importantissimo nella cura della depressione è portare la persona a ritrovare se stessa “nonostante” il male, non a partire dalla negazione del male stesso.
Il male è male e non ci piove. Ma cosa posso fare io per non soccombere come essere vivo e vitale e desideroso di vita? E poi, cosa mi insegna questo male? Se è venuto così nella mia vita, se addirittura scopro di essermelo andato a cercare, che scopo ha? Forse “dovevo” confrontarmi con certe cose, perché esse mi dessero gli insegnamenti di cui avevo bisogno?
La perdita di un amore è un male. È un male venir lasciati, è un dolore tremendo. Ma andando a vedere bene, perché restavo là dove sapevo di non essere amato? Cosa mi può insegnare di me questo smacco?
Arrivare a questo punto nella cura della depressione è un vero e proprio successo terapeutico, in grado di mobilitare risorse strepitose. Purtroppo non è sempre facile, data la pertinacia delle convinzioni depressive.
Eppure a volte, procedendo con calma, il muro eretto dal depresso si crepa e poi si sbriciola, e nuova luce torna a illuminare i meandri svuotati e bui della mente.
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