Emotività e forza d’animo
La differenza fra la repressione delle emozioni e il loro contenimento
Quando si affrontano situazioni complesse o fuori dall’ordinario (malattie, separazioni, perdita del lavoro, lutti ecc…) è quasi inevitabile incorrere in momenti di sconforto o in reazioni emotive spropositate.
Tuttavia è essenziale non sminuire eccessivamente tale emotività, tentando di razionalizzare e di mostrare una corazza di forza e lucidità quando invece dentro si sta molto male. Soffocare le emozioni non è un atto di forza d'animo ma un eccesso di difesa che produce violenza contro se stessi. L'esito molto spesso è la caduta nella depressione.
E' importante invece imparare a stare con la sofferenza, lasciarla fluire quando vuole uscire in maniera emotivamente tumultuosa e tenerla con sè quando si è placata dopo l'urgenza dello sfogo.
Questo significa contenere anzichè reprimere le emozioni, e tale contenimento si traduce in una vera e duratura forza d'animo che rende capaci di affontare le situazioni più complesse.
Razionalizzare troppo le emozioni: evitamento e negazionismo
Fronteggiare prontamente l’impatto di un trauma, ridimensionandone troppo la portata, non è garanzia di successo nell’evitare il dolore psichico: invariabilmente, dopo un po’ di stoicismo, la botta si fa sentire, anche negli animi più temprati.
Anche la paura può mobilitare rapide risposte adattive a seguito di spiacevoli incidenti di percorso (attivando strategie compensatorie/riparatrici). Tuttavia essa ha un’efficacia limitata, soprattutto se i tempi per venire fuori dai guai sono lunghi.
Anche l’abitudine a reagire alle avversità utilizzando la fretta come sola bussola di riferimento conduce a lungo termine verso paralisi e catastrofismo (inducendo stasi e macerazione interiore): ad una pronta e risoluta risposta, in genere di breve durata, segue un lasciarsi andare luttuoso.
Allora, come venire a capo di un evento emotivamente stressante ? Se non si può evitare di soffrire e non si possono accelerare i tempi di ripresa, pena un pesante effetto di ritorno, che cosa “fare”?
Sia la reazione troppo ottimista che quella depressiva infondo sono legate allo stesso meccanismo: rifiuto e negazione delle conseguenze impattanti di un evento.
È il rifiuto, non l’umano dolore, lo scoglio che impedisce di affrontare i problemi complessi.
Da “fare” concretamente, a parte le solite routine di buon senso (curarsi, mangiare, curare la propria persona, distrarsi, parlare con amici, magari leggere ecc…) in genere non c’è mai molto. Anzi, più si agisce con cambiamenti ecalatanti più si rischia di aggiungere ulteriori problemi.
Accettare la sofferenza e la realtà: cura e contenimento
Il lavoro da fare allora è più che altro mentale: lo sforzo deve essere quello di guardare in faccia la realtà, per quella che si presenta dopo l’accaduto e non per quella che avrebbe potuto o dovuto essere.
Così facendo si contrasta la pessima abitudine della sottovalutazione (far finta di niente, fingere di avere tutto sotto controllo) o della drammatizzazione (girando a vuoto con i vari “se”, “se avessi fatto”, “se avessi detto” ecc…).
La realtà è che quando accade qualcosa di brutto, accade e basta, non ci avvisa per tempo e non ci chiede il permesso. Il dolore può essere lacerante, intollerabile, eppure è solo prendendo atto della nuova configurazione delle cose in noi stessi e nel nostro mondo che possiamo piano piano reagire.
Nelle circostanze avverse siamo chiamati ad accettare, ad avere pazienza. Però non per restare inermi, schiacciati sotto il peso del male.
Esiste un’accettazione “attiva”, ben diversa dalla rassegnazione. Una volta guardata la realtà e capito bene cos’è successo, qual è lo scoglio da affrontare, una volta messi a fuoco i rischi e i contorni della situazione, c’è da entrare nella disposizione d’animo della sopportazione.
Beninteso sopportazione di ciò che non possiamo mutare, tenendo gli occhi ben aperti su tutto ciò che resta nelle nostre possibilità.
Siamo contenti e felici in queste circostanze? La risposta è no, non possiamo esserlo con tutto il nostro essere. Qualcosa in noi però resiste, è vivo, nonostante tutto. Ed è a quel brandello più o meno robusto di vita che ci dobbiamo attaccare per sopravvivere.
Il tempo è un grande guaritore; stare, giorno dopo giorno, curando come si può la ferita, nel lungo guarisce nel corpo o nello spirito.
E una cosa è garantita: dopo, nel bene o nel male, non saremo più quelli di prima. Avremo guadagnato consapevolezza, non saremo migliori nè, si spera, peggiori.
Conosceremo meglio i chiaro scuri che prima o poi attendono ogni esistenza umana, e saremo più vigili e attenti all’essenziale, meno nevrotici e più presenti nel qui ed ora.
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