Quando l'ansia è da prestazione
L'ansia così detta "da prestazione" oggigiorno è molto diffusa a vari livelli, per via della competitività che caratterizza la maggior parte dei contesti sociali. Essere al top, disinvolti, sciolti, positivi, efficienti appare come un vero e proprio diktat che su molti esercita un effetto inibitorio, inducendo un timore sempre crescente di non essere all' altezza delle attese del proprio ambiente.
L'insicurezza che ne deriva finisce per sabotare le prestazioni stesse o in ogni caso rischia di sfibrare e portare all'esaurimento chi la patisce, perché troppo preso nell'esercitare un controllo maniacale sul suo operato. Il non potersi lasciare andare, il non poter dimenticare di monitorare costantemente la propria resa blocca l'espressione di sè, ingabbia, impedisce di progredire e di crescere nella misura in cui non ci si sente mai davvero pronti per venir fuori allo scoperto.
Perché davanti alle stesse richieste prestazionali qualcuno crolla o rimane impigliato nel meccanismo della procrastinazione e qualcun altro invece procede dritto per la propria strada? Siamo scuri che vada avanti davvero quello più bravo? Da dove deriva la fiducia in se stessi se essa non è evidentemente la diretta conseguenza della capacità?
Spesso in chi patisce l'ansia correlata all'esporsi in prima persona alla valutazione dell'Altro si risveglia una sensazione antica, già provata durante l'infanzia. Emerge cioè chiaramente la posizione che aveva inconsciamente occupato in relazione al desiderio dei suoi genitori, con tutto il correlato di inadeguatezza per non riuscire a soddisfarli. Essere bravi, buoni, mansueti poteva essere dunque un modo per cercare di ottenere amore e riconoscimento da parte loro, senza tuttavia avere mai pienamente successo nell'intento. Qualcosa mancava sempre, qualcosa non era mai del tutto a posto, non era mai abbastanza.
Si vede bene allora come l' ansia sia legata ad un'incertezza di fondo rispetto a come ci vede l'altro, ad un essere desiderabile ai suoi occhi. Più in passato si è avuto conferma del proprio valore solo a certe condizioni, più si tenderà anche da adulti a pensare di piacere solo a condizione di non mostrare mancanze e difetti.
Chi accoglie con disinvoltura l'errore o riesce a tollerarlo senza andare in panico non è il più dotato, ma colui che nella sua storia personale ha beneficiato di un amore incondizionato, è stato amato più per i suoi difetti che per i suoi pregi. Ecco perché per questi soggetti è più semplice integrare insuccessi e attacchi alla propria immagine, a volte anche gravemente invalidanti. Perché non basano il valore profondo delle loro persone sull'apparire senza macchie.
Un lavoro psicoterapeutico aiuta a vedere queste dinamiche sepolte nel passato. Attraverso la rilettura della propria storia all'interno di una buona relazione terapeutica risulta possibile tirar fuori finalmente verità e autenticità, godendo di un effetto di riconoscimento. Questo soprattutto all'inizio. Un lavoro spinto a fondo infatti comporta da un certo punto in poi una profonda solitudine, perchè è solo avendo la forza di assumere in prima persona la propria divisione, guardarla in faccia e cercare di farci qualcosa al di là del lamento che si può accedere ad una autentica libertà interiore. Che porterà con sè la possibilità di vivere creativamente, a partire da quello che si è, bellezze e bruttezze incluse.