Resilienza, fragilità psicologica e psicoterapia

La forza interiore come maturazione individuale
Molte persone alle prese con traumi, lutti o separazioni sentono l’urgenza di tornare a stare bene rapidamente. L’insopportabilità del dolore, dovuta ad una fragilità psicologica di base, le porta a metterlo da parte, senza che esso possa rivelarsi come un’occasione di crescita e di autoconoscenza.
In questo modo si verifica un circolo vizioso per cui la scarsa capacità di tenuta di fronte al dolore viene rinforzata dalla fuga: non si verifica alcuna modificazione interna e dunque non si sviluppa nessuno strumento per affrontare le difficoltà che nuovamente si ripresenteranno.
Inoltre tale atteggiamento “negazionista” è incentivato dal discorso sociale dominante, che interpreta erroneamente l’atteggiamento “resiliente” come l’esercizio di una forza di volontà dura e inflessibile, che nega ogni debolezza e spinge l’individuo a continuare a “funzionare”efficacemente nella sua vita lavorativa e sociale.
Produrre e consumare infatti sono due attività che possono essere intralciate dal tempo lungo dell’elaborazione di un lutto. La società dell’immagine non ammette défaillance, il suo imperativo di bellezza e felicità blocca gli esseri umani nella ricerca di un’euforia triste, costringendoli a non avere mai davvero pace.
La forza interiore invece è un concetto molto diverso: essa non rifiuta la difficoltà ma la integra come parte dell’esperienza di vita, facendo di essa una fonte di conoscenza e di crescita personale.
I traumi e le avversità racchiudono allora un potenziale di “risveglio” enorme rispetto al senso più profondo della vita, che può essere efficacemente esplorato anche in psicoterapia.
Non è un caso che chi riesce ad attraversare la sofferenza senza schivarla, ad accoglierla pur non lasciandosi sopraffare da essa, arriva a sperimentare un senso di vitalità nuovo, più pieno, più stabile e meno legato agli aspetti materiali dell’esistenza.
La fragilità psicologica come ostacolo all’evoluzione personale
La fragilità psicologica si sostanzia dunque in una difficoltà a contenere e fronteggiare gli aspetti negativi dell’esistenza. Essa espone alla “caduta a picco” nel negativo, ovvero allo sprofondare nella sofferenza senza possibilità di rialzarsi. L’ansia e la depressione sono i due esiti più tipici di questo restare sopraffatti dal malessere.
La difesa della negazione è allora apparentemente più adattiva rispetto all’invischiamento nel malessere psicologico, perché almeno protegge dalla perdita totale di se stessi e garantisce una tenuta dell’Io.
Tuttavia la chiusura e l’andare avanti come nulla fosse ha dei limiti: ciò che mettiamo da parte si ripresenta sempre, prima o poi, e con un’intensità maggiorata. Il potenziale patogeno di un dolore non affrontato aumenta anziché diminuire, come una valanga che incrementa il suo volume.
Inoltre tale dinamica non consente di maturare e di evolvere come persone: l’infantilismo resta pronunciato anche in età adulta, lasciando del tutto sprovveduti e non attrezzati a fronteggiare le inevitabili prove che la vita mette di fronte (lutti, separazioni, perdite, malattie, invecchiamento).
Pertanto è importante prendere consapevolezza di questo meccanismo e delle sue cause, da ricercarsi nella propria storia personale che parte dall’infanzia e nei traumi non superati che l’hanno segnata.
Iniziare a lavorare sulle proprie fragilità permette di riconoscere se stessi senza più doversi nascondere dietro a maschere di falsi adattamenti. Riappropriarsi del proprio vero sé significa non giudicarlo, guardarlo amorevolmente e vederne in maniera lucida le debolezze e le risorse.
Iniziare a volersi bene e a conoscere se stessi consente nel tempo di integrare dolori e frustrazioni, promuovendo la definitiva uscita dal mondo delle illusioni e delle fantasie di onnipotenza.
Come sviluppare un percorso trasformativo verso la resilienza: la psicoterapia
La psicoterapia è uno strumento molto efficace per sviluppare la resilienza, da intendersi allora non come esercizio di una forza di resistenza illimitata ma come possibilità di adattarsi ai cambiamenti non voluti e imposti dalle circostanze della vita, potendo beneficiare di un approccio aperto e costruttivo.
Sia soccombere al dolore che negarlo tramite l’esibizione di atteggiamenti di “forza sovrumana” riflettono una modalità infantile fissata e non superata nella crescita, che oscilla fra impotenza e onnipotenza, fra totale inermità e autoesaltazione maniacale.
Perché questa fissazione all’infanzia? Quale trauma può aver segnato l’impossibilità di lasciare andare la condizione umana di massima fragilità nei confronti del reale?
In genere, pur con le varie sfumature e differenze, il nodo è da rintracciarsi in un ambiente familiare segnato da trascuratezze e precocemente adultizzante o al contrario scarsamente incoraggiante l’autonomia e la capacità di sopportare le frustrazioni, in un clima di rispetto e di fiducia.
La fragilità del sé viene fissata da genitori che negano i bisogni di dipendenza tipici dell’infanzia (senza garantire le cure emotive necessarie) o che al rovescio rendono il bambino eternamente dipendente da loro, controllandolo in ogni modo e ostacolando i suoi bisogni di esplorazione.
In entrambi i casi resta nello psichismo profondo l’attesa di una condizione di beatitudine eternamente sfuggente, che si concretizza in un’insopportabilità delle frustrazioni, anche minime, e nella tendenza a idealizzare chiunque come un salvatore o una persona speciale che riparerà da tutti i mali.
In psicoterapia si possono ripercorrere questi temi, entrando in contatto con la sofferenza originaria che quella attuale riporta a galla in tutta la sua veemenza. I lutti e le separazioni riattivano i traumi originari; poterli mettere nitidamente a fuoco è il primo passo per accettare l’esistenza del negativo e per venire a patti con esso.
Il proprio sé, benché ferito, se non è morto è ancora in grado di adattarsi autonomamente alla vita nelle sue numerose sfaccettature. Grazie alla guida di uno psicoterapeuta è possibile correggere parzialmente il difetto orginario, imparare a non sottrarsi alla sofferenza, a contenerla e infine a farci qualcosa.
Il luogo della terapia se da un lato evoca i bisogni di dipendenza e funge da contenitore di essi, dall’altro incentiva l’autonomia e sostiene le risorse della persona.
Il processo di resilienza innescato dal lavoro psicoterapeutico si prolunga fuori dalla stanza di analisi perché riattiva le risorse che si erano spente senza sostituirsi ad esse.
Il legame con l’altro viene sperimentato in psicoterapia nella sua dimensione curativa: sostiene senza soffocare la libertà individuale. Allora anche le relazioni interpersonali nella cerchia privata migliorano; i legami tossici vengono lasciati andare nel nome di relazioni da cui non mancano l’affetto e il rispetto reciproco.
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