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Psicoterapia e dinamiche familiari: quando la crisi del singolo svela il sistema malato

metafora della libertà interiore rispetto ai legami familiari tossici

La terapia come "elemento perturbatore"

La psicoterapia svolta da un membro della famiglia, quando è davvero trasformatrice, spesso si rivela perturbatrice degli equilibri dell’intero sistema.

Questo perché chi analizza se stesso inevitabilmente smette di essere prevedibile e compiacente rispetto alle consuete dinamiche familiari disfunzionali, di cui inizia a essere cosciente.

Accadono allora due fenomeni complementari: da un lato la persona che va in terapia diventa insofferente se non addirittura apertamente ribelle rispetto ai codici di comportamento attesi dal suo contesto familiare. Dall’altro è la famiglia stessa a diventare aggressiva ed espulsiva verso il suo membro “dissidente”, implicitamente accusato di tradimento e di essere diventato “cattivo” e irriconoscente.

La reazione del sistema: chiusura o evoluzione

Purtroppo di rado le famiglie sono disposte a integrare al loro interno le critiche e i mutamenti degli equilibri, un po’come succede ai gruppi chiusi, cementificati da un’identità monolitica.

La capacità di un aggregato umano di assorbire il mutamento di un individuo che ne fa parte è un meccanismo sano e virtuso, perché contempla la possibilità di confrontarsi con l’altro, con il “fuori” che il membro “indocile” porta all’interno. Il sistema che accetta la critica tenta di comprendere i propri punti ciechi ed è infine riconoscente verso colui che introduce la divergenza, strumento prezioso per gli appartenenti al gruppo che così possono evolvere, crescere e affinarsi.

La possibilità di mettersi in discussione e la curiosità verso la novità introdotta dal cambiamento di un familiare purtroppo sono totalmente assenti nei contesti “patologici” da cui provengono molti soggetti che scelgono la psicoterapia come strumento conoscitivo.

Arrivare in terapia spessissimo segnala uno scollamento già avvenuto fra il soggetto e il suo ambiente: la sofferenza che distingue il “diverso” in realtà non rappresenta un difetto da correggere piuttosto l’esito dello scarto percepito fra sè e l’altro, ormai irrigidito e chiuso alla comunicazione.

Nel dolore non capito esiste in potenza la possibilità di affrancarsi e di guarire, perché è un tentativo di dare voce a qualcosa di oscuro e inammissibile all’interno delle mura domestiche, una verità scomoda e indicibile. Quando il grido di aiuto trova un ascolto e una comprensione reale (e il setting terapeutico costituisce propriamente il luogo del riconoscimento di ciò che resta negato altrove) le possibilità di guarigione sono molto alte.

Il "patto di segretezza" e il portatore del disagio

Il membro della famiglia che va in crisi si fa quindi portatore del disagio di tutto il gruppo, senza che però gli sia stata data l’autorizzazione a parlare. Egli se la prende da solo tale licenza, il suo star male è ciò che paradossalmente gli dà la forza di denunciare quel “sommerso” scabroso che non si deve rivelare a sconosciuti.

Non di rado fra i membri di una famiglia esiste una sorta di patto di segretezza; l’immagine da fornire all’esterno deve essere di rispettabilità, di serenità o di successo, quando invece dietro alla facciata si annidano conflitti, storture, violenze e ricatti affettivi di ogni genere.

La famiglia nel suo complesso appare allora come la vera “malata” quando un membro si decide a parlare, mosso dal suo dolore e dalla volontà di “sopravvivere” come individuo in un sistema soffocante.

Quando il sintomo racconta la famiglia

I sintomi del singolo da un lato mimano, riproducono quelli del sistema, dall’altro costituiscono una risposta precisa alla posizione in cui egli è stato messo in famiglia.

Prendiamo un sintomo alimentare. Quando in consultazione arriva una giovane donna in preda a sintomi alimentari novantanove su cento troviamo una madre e un padre che non parlano fra di loro, emotivamente distanti gli uni dagli altri. La ragazza, con il suo tenersi lontana dal cibo, non fa altro che “rappresentare” tale distanza emotiva dal partner, distanza trasferita sull’oggetto cibo.

Ma nello stesso tempo ricercare la magrezza in quanto attributo di successo costituisce la risposta alle aspettative genitoriali su di lei: la brava bambina ubbidiente, bella e brava. Il sintomo segnala con precisione chirurgica il posto che le è stato affidato in famiglia.

Un altro esempio, un sintomo depressivo adolescenziale di una certa entità. L’immobilismo, la svalutazione di sè e l’abulia della depressione sono il risultato del contagio della depressione dell’altro: nella famiglia del depresso tutti, ma proprio tutti sono depressi, anche quando non sono consapevoli di esserlo, presi come sono da mille attività. Quale posto spetta al soggetto più sintomatico? Di cosa è stato incaricato dalla sua famiglia? Spesso i depressi sono coloro per i quali in famiglia proprio non c’è stato un posto vero e proprio, quelli sballottati secondo il capriccio altrui, da cui ci si aspettava pure che crescessero soli, in fretta e senza dare fastidi. Il depresso, con il suo non vedere un futuro, con la sua inerzia e i suoi pensieri di morte non “realizza” il mancato fondamento della sua esistenza?

Il "sabotaggio" della guarigione e l'emancipazione

La guarigione è un processo lungo e complesso. La ragazza anoressica che va in terapia e comincia a parlare non guarisce subito, prima che fa? Racconta, ricostruisce le storture, il clima tossico, le false credenze. Inizia a realizzare il ginepraio che ha intorno, vuole parlare con i genitori, affrontare argomenti, oppure smette di reagire come una volta in modo docile e mansueto, inizia a gridare le sue ragioni per farsi sentire ma si sente rispondere in modo negazionista, aggressivo.

Tutto il focus della famiglia è sulla guarigione, non su come si sia arrivati alla malattia. La terapia è guardata con sospetto, messa sotto giudizio ( “da quando vai in terapia stai peggio ecc…”) e più o meno apertamente sabotata. Ecco che il sistema si irrigidisce, si chiude e perde la possibilità di “guarire” nel suo complesso. Si invoca la guarigione ma poi nei fatti la si ostacola in tutti i modi per mantenere il comodo status quo.

Quando il sintomo scompare nessuno è mai davvero felice; l’uscita dalla malattia coincide nella maggioranza dei casi con l’allontanamento da casa e l’emancipazione del soggetto. Allora si vede in purezza la patologia del sistema familiare, che si dissegrega, crolla.

Il sacrificio di un membro del gruppo era funzionale alla sopravvivenza delle dinamiche patologiche, nascoste da maschere di adattamento e di buoni sentimenti.

Aiuto psicoterapeutico , Rapporto genitori figli