Lo psicofarmaco in psicoterapia

Negli ultimi decenni lo psicofarmaco è diventato uno strumento sempre più presente nei percorsi di cura della sofferenza emotiva. Ma qual è il suo ruolo quando la cura farmacologica si associa alla cura dell'anima? È davvero un aiuto o rischia di interferire con il processo terapeutico?
Lo psicofarmaco oggi: tra stigma e normalizzazione
Viviamo in un'epoca in cui l'uso degli psicofarmaci è diffuso e al tempo stesso resta oggetto di controversie.
Ci troviamo in effetti di fronte a un vero e proprio paradosso. Da un lato si ricorre facilmente all'uso degli psicofarmaci anche in caso di disagi lievi, che potrebbero essere risolti con successo attraverso un lavoro introspettivo e di consapevolezza. Dall'altro continua a persistere un forte stigma nei confronti di chi ha la reale necessità di un sostegno farmacologico, come se questo bisogno fosse una prova di debolezza.
Questo perché nella cultura contemporanea la fragilità umana è considerata come una macchia da cancellare, da togliere il prima possibile, e non come una caratteristica intrinseca al nostro essere, che racchiude anche un lato poetico. Sarebbe infatti molto triste se fossimo sempre forti e d'acciaio, delle macchine disumane, prive di compassione per noi stessi e per gli altri, senza alcuna dolcezza!
L'ambivalenza nei confronti dello psicofarmaco riflette allora una tensione culturale: medicalizzare il disagio ritenendolo frutto di un guasto della macchina o accettarlo nella sua complessità? In psicoterapia, questa domanda assume un peso particolare.
Psicoterapia e farmaco, un'alleanza possibile
Nella visione psicodinamica i sintomi non sono semplicemente degli "errori biologici" da correggere, ma espressioni della vita interiore, dei segnali che parlano di conflitti, di perdite, di desideri e di paure.
Al netto di ciò esistono situazioni in cui il disagio è talmente intenso, come nelle forme depressive gravi, in alcuni disturbi d'ansia e nei quadri di tipo post traumatico, da rendere difficile l'avvio o la prosecuzione di un lavoro terapeutico.
In questi casi lo psicofarmaco può rappresentare un supporto temporaneo utile, capace di ridurre l'intensità dei sintomi e di permettere l'accesso alla relazione terapeutica e al lavoro di elaborazione psichica (altrimenti bloccato dall'intensità fuori controllo delle crisi emotive).
I limiti della medicalizzazione del disagio psichico
Affidarsi esclusivamente al farmaco è un rischio concreto ai fini del ripristino di un buon compenso psicologico di base. Prendere una pillola là dove essa non è necessaria fa saltare in toto la parte più faticosa ma anche più trasformativa del processo di guarigione, che consiste nella comprensione del proprio mondo interno.
Il lavoro introspettivo di mentalizzazione viene messo completamente fuorigioco; lo psicofarmaco infatti agisce sui sintomi ma non lavora sulle cause profonde, non chiarisce i conflitti, non elabora i traumi, non trasforma i modelli relazionali disfunzionali.
Nel lungo periodo, una cura che si basa esclusivamente sul farmaco può generare una dipendenza da soluzioni esterne e quindi indebolire la struttura del soggetto, lasciando irrisolte le dinamiche che avevano generato la sua sofferenza.
Quando il farmaco facilita la terapia
Come abbiamo detto, là dove il malessere assume delle proporzioni drammatiche, il farmaco può diventare un alleato del lavoro psicoterapeutico. Il suo utilizzo, che deve essere sempre indicato e monitorato da uno psichiatra, può attenuare la sofferenza acuta e creare una base di stabilità necessaria per poter affrontare con un lavoro di parola i contenuti emotivi più profondi.
Ad esempio, nei casi di una persona fortemente depressa al punto tale da faticare ad alzarsi dal letto, il farmaco può restituire quel minimo di energia e di motivazione da permettere di iniziare ad affrontare i propri lati oscuri.
È importante sempre che questa funzione di ponte assicurata dal farmaco sia chiarita all'interno del setting terapeutico in modo che la persona non venga presa dalla tentazione di affidarsi unicamente all'effetto chimico ma possa comprendere appieno il senso e gli obiettivi della psicoterapia.
Il ruolo del terapeuta nella gestione del farmaco
Uno psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico non è necessariamente un medico e dunque non è sempre autorizzato a prescrivere i farmaci. Egli tuttavia ha la sensibilità clinica necessaria per riconoscere i momenti in cui un supporto psichiatrico è indicato.
È fondamentale che questo passaggio avvenga sempre in accordo con la persona sofferente senza forzature e senza che l'assunzione del farmaco si trasformi in una delega o in una fuga dal processo terapeutico.
La comunicazione chiara, il rispetto della soggettività del paziente e il coordinamento con uno psichiatra sono elementi essenziali per mantenere un buon equilibrio trattamento farmacologico lavoro psicoterapeutico.
Il significato psicologico del farmaco per il paziente
Spesso il rifiuto del farmaco o al contrario il desiderio eccessivo di assumerlo esprime delle dinamiche inconsce di un certo rilievo. Alcuni pazienti vivono il farmaco come un fallimento personale, come una ferita narcisistica, altri lo idealizzano come una soluzione magica (avevo trattato il tema da rifiuto del farmaco come espressione di conflitti narcisistici e aspettative idealizzanti in Sul farmaco nella cura).
Entrambe le posizioni possono essere esplorate nel percorso terapeutico per comprendere cosa rappresenta il farmaco nella storia affettiva relazionale del soggetto
Anche in questo il lavoro psicodinamico può aiutare a restituire significato all'esperienza e a promuovere una maggiore consapevolezza.
Lo psicofarmaco non è né un nemico né una panacea, è uno strumento che se usato con attenzione all'interno di un percorso terapeutico può sostenere il processo di cambiamento.
La psicoterapia psicodinamica centrata sull'ascolto profondo, la rielaborazione delle esperienze affettive e sull'esplorazione del mondo interno della persona, resta l'asse più importante del trattamento.