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Volubilità: quando diventa patologica

La volubilità, intesa come tendenza a cambiare umore e intenti in maniera più o meno repentina,  è un attributo che spesso  si associa a  personalità creative, curiose, irrequiete, bisognose di stimoli e suscettibili a cambiare prospettiva sulle cose e sulle persone.

I pregi di una “misurata” volubilità


Non sempre è da considerare negativamente, come sinonimo di superficialità e inaffidabilità. Essa può, in una certa misura, risultare una ricchezza, perché allarga il ventaglio delle esperienze sensibili e dei punti di vista. Inoltre, se non troppo marcata, può “colorare” un carattere tendenzialmente stabile,  nella misura in cui assicura un dinamismo interiore non distruttivo ma capace di sperimentare la contraddizione insita nelle passioni umane.

Gli artisti sono coloro che più degli altri sanno sfruttare una certa quota di volubilità al fine di rappresentare il reale di emozioni, vissuti e situazioni. Dalle loro mutevoli percezioni essi attingono gran parte del materiale fonte di ispirazione delle loro opere, permettendo anche a chi vive una gamma più ristretta di vissuti di gettare lo sguardo su altri mondi.

In una certa misura un po’ di volubilità aiuta anche gli operatori della salute mentale, perché fa si che il loro approccio al paziente non sia sempre lo stesso. Il che aiuta sia chi viene curato (che così si abitua ad un incontro mai prevedibile del tutto, cosa che nella vita reale è all’ordine del giorno) che il curante stesso, capace di cogliere tratti che sfuggivano a partire da un unico punto di osservazione.

Il versante patologico

Tuttavia, senza un adeguato contrappeso psichico, la volubilità rischia di travolgere sia il volubile che l’oggetto delle  sue attenzioni. In questi casi si entra nella sfera del patologico, ovvero delle gravi alterazioni dell’umore e della dissociazione mentale vera e propria.

Anche a questo livello  l’arte (non quella terapeutica, che dovrebbe restare appannaggio di soggetti emotivamente stabili)  resta un’interessante via d’espressione di esperienze psichiche intense, variegate ed inusuali. Detto ciò la vita di chi soffre di alterazioni importanti dell’umore o della personalità va incontro a sofferenze pesanti, senza parlare dello smarrimento di familiari, partner o amici.

Il volubile patologico un giorno sente di amare profondamente qualcuno e la mattina dopo si sveglia con un senso di freddezza e di rifiuto del legame, che lo lascia in balia di sentimenti di vuoto, di apatia e di nullità esistenziale. Per sfuggire a questi stati negativi può buttarsi in atteggiamenti maniacali, in un’euforia al fondo triste e dannosa.

Va da sé che chi gli è affettivamente vicino resti ferito, si allontani e dunque sia poi indisponibile nel momento del ritorno. Oppure, se dovesse cedere,  il volubile prima o poi ricambierà idea, logorando fino allo sfinimento il rapporto. La sua richiesta di fondo è che l’altro resista a tutte le sue volubilità, che l’altro lo ami anche se lui non riesce a contraccambiare in maniera equilibrata. Cosa che può fare un amico, oppure una persona dotata di un’auto stima di ferro e di un amore incondizionato che va oltre la reciprocità.

Freuquentmente in questa maniera  grandi amori vengono bruciati senza un perché collocabile nel presente, sicuramente rintracciabile in antiche ferite emotive subite nell’infanzia in relazione alla figura principale di accudimento.

La volubilità patologica non la vediamo solo nell’ambito delle relazioni. Chi è emotivamente instabile si entusiasma per un lavoro, per un hobby, per una località che improvvisamente, senza un motivo,  lo riempie di noia al punto da spingerlo a interrompere qualsiasi contatto con esso.

Molte carriere accidentate, molti cambi di lavoro o di resistenza si spiegano così, con un drastico esaurimento della carica vitale che non diventa oggetto di un’interrogazione personale profonda. Perché non sono mai contento? Questa domanda il volubile se la pone ma,  non trovando una  risposta,  preferisce optare per l’atto, per il cambiamento della realtà anziché di se stesso. La ripetizione alla fine inghiotte tutta la sua vita, le dinamiche che lo schiavizzano si ripetono con brevi parentesi di calma e stabilità.

La terapia

La terapia di questi soggetti deve tenere conto del loro bisogno di fondo di rispecchiamento e di stabilità. Per l’appunto di solito si tratta di persone con una buona dose di vivacità mentale, che resta inconcludente per via della loro difficoltà a soffermarsi a lungo su qualcosa.

Dunque in terapia mostreranno ottime capacità di descrizione dei loro variegati stati interiori. Essa però non va scambiata per consapevolezza profonda, sarebbe un errore. Il volubile di questo tipo si accorge di funzionare in un certo modo ma non riesce a ricostruirne il perché. E se lo fa entra in contatto con qualcosa  di troppo doloroso da accettare, per cui sarà portato ad abbandonare la terapia, percepita come  un luogo intollerabile anziché rassicurante.

“Sono così e basta, non cambierò mai” è l’amara constatazione di molti. Allora il modesto obiettivo del curante sarà far sperimentare al suo paziente un Altro che c’è nonostante tutto, che non vuole nulla, che sempre e comunque resta dalla sua parte.

Un pezzo di cammino viene fatto insieme, poi inevitabilmente avverrà un abbandono, a cui, forse, seguirà un ritorno. L’importante è essere lì, sempre in ascolto. Senza voler guarire, manovrare, armeggiare con i traumi del passato. Dotati di simpatia umana verso qualcuno che, nel tentativo di proteggersi dai suoi fantasmi, si distrugge. A volte il terapeuta può incarnare la sola persona al mondo in grado di “reggere” l’impossibilità caratteriale del paziente. E questo, se avviene, alla lunga può curare, può temperare il moto perpetuo dell’onda senza riposo.

Disagio contemporaneo