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La volubilità patologica

Dimostrarsi un po’ volubili negli umori, nei pensieri e negli intenti non è a rigore una patologia, anzi, spesso la mutevolezza è il segno di una personalità non statica, capace di ricredersi, di mettere in discussione il già dato, di dare delle svolte significative al proprio percorso esistenziale, di sperimentare più dimensioni e più tonalità del vivere.

La mutevolezza dell’iper sensibilità

Le persone molto “vive” sono soggette a fluttuazioni del sentire, anche rilevanti, e questo fatto le rende inclini alla creatività nella misura in cui l’onda della meraviglia straripante verso il creato o l’ombra crepuscolare della malinconia spingono a cercare delle forme espressive, dei luoghi concreti dove incanalare le visioni e dar loro una forma.

La sensibilità o l’iper sensibilità conducono dunque verso vette che possono precedere la scivolata, fanno volare e soffrire, portano a cogliere il vero in tutte le sue forme, quelle scintillanti e mostruosamente belle così come le brutture e gli aspetti oscuri dell’esistenza. 

La gioia e l’insoddisfazione sono le emozioni più potenti, che permettono di compiere degli sforzi incredibili, di mobilitare energie enormi per far assomigliare il più possibile la vita ai desideri. Ciò al prezzo di dolori, frustrazioni e delusioni spesso cocenti, perché non tutto dipende dalla propria energia creativa e dalla propria volontà. Esistono incontri sbagliati, eventi avversi, insomma la contingenza a cui tutto il genere umano è esposto. Poesia e dramma si intrecciano, l’ipersensibile ha le antenne per cogliere tutte le sfumature e il suo essere non è esente da sbilanciamenti, rovinose cadute, voli e riprese spettacolari.

Tutto ciò, dicevamo, non rientra tuttavia nel campo della patologia, sebbene  faccia addentrare in territori pericolosi, in cui può innestarsi la malattia a certe condizioni. La sensibilità esagerata predispone a esperienze particolari, un po’ fuori dalla così detta norma, eppure perché si parli di malattia deve accadere qualcos’altro.

Quando la volubilità diventa patologica 

Gli addetti ai lavori notano una sorta di cecità nel comportamento folle, ovvero una specie di incapacità di guardare a se stessi e dunque conseguentemente di impedire che l’emozione positiva o negativa prenda il controllo sull’intera personalità, governando le azioni, le scelte ecc…

Il folle in un certo senso “sceglie” di radicalizzare la gioia trasformandola in mania o di impaludare la tristezza portandola fino all’esasperazione della depressione. Ma la sua è una scelta inconsapevole, perché gli manca uno strumento per guardarsi da fuori e intervenire per evitare l’incidente, al pari di un’auto fuori controllo a cui non solo non funzionano i freni ma soprattutto viene a mancare la possibilità di ricorrere al freno a mano.

Di fatto nella follia si finisce in balia degli umori, che scattano nel cervello come interruttori che da quel punto in poi innescano delle reazioni a catena che non risulta più possibile fermare in alcun modo.

L’ipersensibile, a differenza della persona che soffre di un problema psichiatrico, è capace di auto riflessione, di vedere che nella sua mente  sta accadendo qualcosa, di riconoscere precisamente cosa sta accadendo e di non restarne schiavo.

Ad esempio dopo un periodo super creativo di lavoro proficuo, oppure al culmine di un inebriante sentimento amoroso, potrebbe affacciarsi il tarlo dell’insoddisfazione, come un clic mentale che porta a minacciare col nero tutto ciò che prima brillava. È un fenomeno classico e comune a molti individui.

La persona non patologica ma predisposta a questo tipo di esperienza riconosce il fenomeno, capisce che fa parte della vita, che è “normale” non vivere sempre tutto al top, ad un livello di intensità altissimo. Dunque cosa fa, salva il suo lavoro o il suo sentimento anche se in un dato momento non riesce ad apprezzarne a pieno il valore.  

Questo atteggiamento porta ad accettare il limite  senza che si inneschino dei processi distruttivi, a tollerare l’ambivalenza strutturale in cui siamo immersi prendendola e guardandola per quella che é. I sentimenti di vuoto non intaccano né chi li prova né gli oggetti, subentrano delle modalità di distrazione, di ridimensionamento all’insegna della leggerezza e della gratitudine che aiutano a decomprimere e a non sbilanciarsi.

La consapevolezza di questo genere è un’acquisizione dell’esperienza e della maturità, ma quando si realizza è il segno che la mente è sana, ovvero plastica, capace di auto osservazione, di apprendimento dall’esperienza e dunque di rottura della ripetizione acefala.

Il comportamento patologico lo si vede invece quando il clic dell’insoddisfazione che scatta magari proprio al culmine della pienezza porta ad aggredire l’oggetto o a farsi del male. Il vuoto non è mentalizzato, elaborato, visto lucidamente per quello che è ma viene preso per una verità assoluta, dando luogo ad azioni violente e distruttive di cui è possibile pentirsi in un secondo tempo.

Per questo è così difficile stare accanto a  soggetti con problemi mentali di tal genere; ciò fa di loro delle persone  totalmente inaffidabili, lunatiche, negazioniste e violente, benché spesso piene di qualità e amabili per moltissimi aspetti. In balia dei marosi trascinano anche chi sta loro vicino dentro assurdi abissi, che potrebbero essere evitati se fosse possibile accedere ad una coscienza lucida.

Nella cura del disagio mentale oggi si pone molta attenzione a questo fenomeno, dilagante anche nella popolazione dei così detti sani. Si cerca cioè di potenziare la capacità di mentalizzazione, ovvero di riconoscimento dei propri stati emotivi in modo da individuare i punti di innesco e di ripetizione dei comportamenti disfunzionali, per limitare gli effetti dannosi di condotte completamente automatiche e acefale.

Purtroppo lo sviluppo tecnologico non sta aiutando in tal senso: vediamo giovani sempre più veloci, più abili a usare le macchine ma sempre meno attrezzati a riconoscere una dinamica interiore. Una difficoltà supplementare nel trattare questi problemi deriva anche dal mood consumistico in cui viviamo, per cui tutto si può buttare via facilmente senza farsi troppi problemi, la profondità in un batter d’occhio si dissolve nella superficialità più assoluta. Poi stare male e trascinare gli altri nei propri loop fa anche godere perversamente.

La leva numero uno per il cambiamento resta allora come sempre  la volontà di capire e di capirsi senza sotterfugi e autocompiacimenti.

Disagio contemporaneo