Superare le prove difficili
Esistono periodi nell’arco di un’esistenza in cui i problemi e le difficoltà sembrano non finire mai, accavallandosi senza sosta.
A volte il destino pare accanirsi: lutti, malattie, fallimenti sentimentali e lavorativi si susseguono a ripetizione, non lasciando alla psiche il tempo e il modo di riprendersi.
Per superare una perdita di una certa entità la mente infatti ha bisogno di tempo, tempo per elaborare l’accaduto e tempo per rilanciare la spinta vitale intorpidita dal dolore.
Ma se questa opportunità viene meno, se il lasso temporale che intercorre fra gli eventi penosi si assottiglia troppo, esiste un rischio molto concreto che la tenuta psichica vacilli o collassi del tutto.
La percezione che il lavoro di ricostruzione appena iniziato sia vanificato da un nuovo e magari più aggressivo terremoto può ingenerare un senso di rabbia impotente, unitamente alla perdita della volontà di lottare per tirarsi fuori dai guai.
La tentazione di lasciarsi andare può invadere la coscienza e tramutarsi in un atteggiamento di resa passiva.
Chiudersi nel dolore, smettere di aspettarsi alcunché di buono e di bello, cedere sulla cura di sè e del proprio ambiente relazionale e domestico, assentarsi dal lavoro, non pagare più le tasse ecc…sono i segni tangibili di una sofferenza psicologica che potenzialmente può degenerare fino alla più completa perdita della ragione.
Il mental break down di questo tipo è insidioso e può minare pesantemente la salute mentale, dando il via a comportamenti autodistruttivi, alla depressione e all’abuso di sostanze stupefacenti.
Chi scivola in questa condizione vuole solo l’oblio, perché la realtà gli risulta troppo dura da sopportare e non vede più nulla per cui valga la pena.
La cura che salva
Come si fa allora per non cadere preda della disperazione quando la vita mette di fronte a ripetute e stremanti prove? Su cosa si basa infine la cura di chi si è perso sotto la tragica coltre della sventura?
In genere chi riesce a mantenere dritta la barra nonostante le innumerevoli avversità non trae la sua forza dalla freddezza, dal distacco e da un approccio esclusivamente razionale alle questioni che lo attanagliano
Lo sfogo emotivo è fondamentale, il pianto e la parola restano due possibilità essenziali quando tutto il resto viene meno, quando mancano gli abbracci, quando la solitudine si fa nera, quando il corpo non risponde più, quando l’ansia e la paura sono divoranti
Il pianto permette all’emozione di materializzarsi in un corpo liquido, di defluire e di placarsi. Mentre la parola trasforma l’esperienza intima e personale di dolore in qualcosa che può essere condivisa, che può essere compresa dall’altro da me.
Se c’è un interlocutore disponibile ad ascoltare e a far sentire la sua partecipazione vera (non simulata dai buoni propositi e dai buoni sentimenti) la parola acquista una potenza terapeutica fortissima perché rompe il muro dell’insensatezza e dell’ incomunicabilità.
In quest’ottica anche scrivere cura, perché la scrittura si rivolge all’altro anche quando non è destinata alla pubblicazione; scrivendo del mio dolore io lo oggettivo, me lo scollo di dosso non secondo una modalità negazionista o puramente evacuativa.
Scrivere mette in prospettiva tutta l’esperienza emotiva interiore, favorendo una disidentificazione dal male.
Riuscire a vedersi come “altro” rispetto al proprio dolore è la risorsa della persona forte, in grado di sopravvivere umanamente alle proprie sventure.
È il nulla che fa impazzire e i traumi ripetuti, gli abbandoni, le malattie hanno questo potenziale patogeno perché sono in grado di farci sperimentazione l’esperienza dell’ annientamento, dell’essere ridotti a corpi, a cose rotte prive di senso.
Contrastare l’insensatezza del nulla grazie al “verbo” è una forma di preghiera.
Forse in psicoterapia ci si va anche per pregare, ovvero per ritrovare la propria anima, la propria umanità minacciata dalla precarietà dell’esistenza terrena.
Jung notava finemente come la domanda d’amore rivolta al terapeuta non vada letta come una semplice riedizione regressiva della primitiva richiesta di aiuto al genitore da parte del bambino perso nel suo dolore
In terapia ci si rivolge infondo a Dio, anche in questi tempi senza Dio l’esigenza umana archetipica di Dio si svela insopprimibile, perché la ricerca di un senso ultra terreno è antica quanto la specie umana.
La terapia allora cura davvero quando assomiglia alla preghiera; il terapeuta umile, che non si identifica certo a Dio (ma si riconosce come un uomo soggetto alle stesse leggi che regolano la vita dei suoi pazienti) riconosce, accoglie e si unisce alla parola come espressione e invocazione del sacro.
La voglia di vivere riprende pienamente quando non si vede più solo l’aspetto materiale della vita, ma si riesce (anche tramite la via del dolore invalidante) a riconnettersi alla propria anima e al senso di meraviglia nei confronti del tutto.