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Come lasciare andare il passato?

Ruminazione, senso di vuoto, rabbia, sentimenti luttuosi sono i principali sintomi che segnalano la difficoltà di voltare pagina dopo il fallimento di un progetto importante, sia esso di natura sentimentale, familiare o professionale.

La “digestione” non patologica del passato

Tali sintomi quando sono passeggeri e non permangono più del tempo fisiologico per assorbire la perdita (che in genere dura dai sei mesi all’anno), hanno una loro precisa ragion d’essere.

L’espressione del dolore psichico (senso di vuoto, malinconia, rabbia) così come la fissazione del pensiero (ruminazione di carattere ossessivo) costituiscono infatti le componenti essenziali del processo “digestivo” degli accadimenti di natura negativa o traumatica.

Rivivendo emotivamente e intellettivamente il passato la nostra mente tenta di congedarsi da una parte ingombrante del proprio vissuto, non per cancellarla ma per penetrarne più compiutamente il senso e per  collocarla infine in un luogo neutro, di pace.

Dopo aver sofferto e compreso le intime ragioni alla base del “disastro” , dopo aver accolto le fragilità che volevamo nascondere o riparare all’interno di un rapporto amoroso “sbagliato” diventa possibile riemergere come persone rinnovate, non più schiacciate dal lutto, dal rancore o peggio dal tormento del “se non avessi fatto, se non avessi incontrato” ecc…

L’impossibilità patologica di lasciare andare si basa invece proprio su questa mancanza di sguardo lucido a cui non può fare seguito l’integrazione dell’errore e dell’abbaglio come parti di sè e delle proprie dinamiche psichiche.

Rifiutare di vedere i propri meccanismi porta a non progredire, perché induce a mettere tutto il male sull’altro e a perdere di vista le ragioni profonde sulle quali si era fondato fin dall’inizio l’incontro destinato a finire male.

La via al superamento pieno della sconfitta risiede allora in due movimenti importantissimi.

Andare oltre la rabbia verso l’altro

Da un lato riuscire a guardare oltre la rabbia verso l’oggetto frustrante fa scemare l’odio, la rabbia e il rancore, avvicinando alla verità di se stessi. Il partner, il collega, il lavoro deludente infatti in quanto tali non hanno mai colpe,  perché a ben vedere nella quasi totalità dei casi essi erano già fin da subito quello che si sono rivelati poi.

É sempre nostra la responsabilità di non aver voluto vedere, di aver sottovalutato aspetti già presenti alla nostra attenzione già nei primi momenti della conoscenza a causa di bisogni irrisolti o di meccanismi potenti di idealizzazione.

Una delle acquisizioni della maturazione, che avviene nel corso dell’esistenza anche grazie alla piena elaborazione di queste disfatte importanti, è la capacità di guardare gli altri e le situazioni non più a partire dalle lenti distorcenti del bisogno e della sopravvalutazione.

Un dono dell’aver vissuto molto, esperienze negative comprese, è proprio questo. Non una chiusura cinica e rancorosa ma un accostarsi agli altri senza aspettative, prendendoli per quello che sono e non per quello che “dovrebbero” essere o alla luce delle nostre mancanze che “dovrebbero” compensare.

Molte storie d’amore possono così iniziare o non iniziare proprio, una volta che il campo è sgomberato dai bisogni, dalle ripetizioni di ruoli e dalle attese di salvazione o di redenzione.

Andare oltre il narcisismo ferito

Il secondo punto chiave per recuperare realmente la serenità consiste nel non restare impigliati nella rete dello smacco narcisistico.  Ciò significa riuscire a mantenere una buona immagine di sè nonostante la sconfitta.

Quando interrompiamo dei rapporti di lunga durata, che hanno occupato una parte centrale della vita o hanno comportato conseguenze irreversibili (ad esempio la nascita di figli oppure la difficoltà di alternative in campo lavorativo perché si è già in là con gli anni ecc..) è facile che il senso di disfatta sia tale da intaccare l’immagine di sé: cosa ho costruito nella vita? Come faccio a ripartire da capo? Dove sono finiti i miei anni migliori? E via dicendo.

Un approccio del genere è malsano perché si basa sulla considerazione delle persone in base al loro livello di successo sociale e/o economico.

Questo livello esteriore concerne l’immagine narcisistica più superficiale e copre delle intime fragilità. Il narcisismo sano infatti prevede che ci si ami e ci si rispetti a prescindere dagli errori che compiamo, dal successo e dal riconoscimento sociale.

Amarsi e accettarsi per ciò che si è, comprese le strade sbagliate, le vie tortuose e gli smarrimenti è il più potente antidepressivo e la più grande risorsa per rimettersi in piedi nonostante i problemi.

Se non si è naturalmente dotati di questo grado di fiducia in se stessi lo si può comunque potenziare, attraverso un percorso interiore di consapevolezza.

Non cadere nella trappola narcisistica oppure venirne fuori grazie a una consapevolezza più ampia di quella che è la parabola della vita aiuta moltissimo.

Tutti gli uomini, anche i più splendenti e “arrivati”, anche quelli che non sbagliano un colpo incontrano prima o poi la sconfitta, il limite dell’invecchiamento e della morte. Se si sono identificati troppo con la maschera sociale vincente vanno incontro a disperazione e follia.

Un lutto, una perdita, una debacle racchiudono un potenziale positivo di risveglio perché fanno assaggiare nel corso della vita la transitorietà delle cose.

Nulla è per sempre, tutto cambia e tutto muta, nessuno  è infallibile o esente da difetti.

Ma noi siamo sempre anche altro rispetto alla nostra immagine, agli errori di valutazione, agli scivolamenti e alle illusioni accecanti. La nostra sostanza, il nostro valore come persone, il nostro essere più vero non coincide con i successi o gli inciampi della nostra biografia, nè tantomeno con la nostra età anagrafica.

Poter vivere a un livello non esclusivamente materialistico è la salvezza.

È la garanzia di un amore che va oltre le apparenze, è la possibilità di capirsi e di  perdonarsi, è la volontà di avviare ancora dei progetti anche quando si è fallito più volte.

Scagionare gli altri e accettare se stessi (pur senza dimenticare gli eventuali torti subiti e desiderando evolvere e raffinarsi) racchiude dunque la possibilità di non mollare e di guardare al presente senza disprezzo e senza il puerile desiderio di tornare indietro nel tempo.

Allora la percezione di un’energia invisibile e salvifica può sostenere lo spirito anche quando intorno è tutto un ribollire di problemi.

Non esiste vita esente da errori e smarrimenti: a noi resta la possibilità di essere gentili e accoglienti verso quel che siamo oggi, lasciando andare sterili rimpianti e adolescenziali malinconie.

Male oscuro, Aiuto psicoterapeutico