Perché “perdonare” i genitori?
Quando in terapia iniziamo a vedere i nostri genitori come “uomini e donne” e non più solo come “entità superiori” che “avrebbero dovuto comportarsi meglio” è segno che stiamo compiendo dei passi in avanti verso l’abbandono di modalità sintomatiche di vivere gli affetti e in generale la vita.
Restare “figli” fissa il malessere emotivo
I sintomi che tengono in scacco le nostre esistenze e impediscono di procedere significativamente nelle relazioni o nella realizzazione personale non di rado costituiscono una reazione passiva o una risposta attiva a modalità genitoriali disfunzionali protratte a lungo nel corso della crescita.
Il malessere psicologico non si modifica nella misura in cui emotivamente restiamo “figli”, ovvero continuiamo a guardare i genitori come coloro dai quali dipende idealmente il “successo” della nostra esistenza.
Spesso i figli si accaniscono nel volere che i genitori “capiscano” i loro errori, solo così, grazie al cambiamento di posizione dell’altro, sperano di trovare pace.
Finché questa aspettativa resta attiva permane la dipendenza infantile dall’altro e la percezione di esserne vittima innocente. Ciò rende il malessere insuperabile e ostacola la possibilità di liberare l’immagine di sè e del proprio futuro dall’influsso negativo del genitore.
Si diventa invece veramente adulti quando anziché litigare con mamma o papà perché non capiscono, perché sono egoisti e non si rendono conto di sè, si interagisce con loro quasi fossero persone qualsiasi, portatrici di limiti e punti ciechi (talvolta clamorosamente ampi e intrattabili) ma anche di qualità pregevoli e di atti amorevoli.
“Degenitorializzare” i genitori sembra costituire la chiave per aprire nuovi orizzonti e abbandonare atteggiamenti autosabotanti che finiscono per legare indissolubilmente il destino alle frustrazioni subite, in una spirale di dolore, di rinuncia o di rabbia astiosa verso gli altri.
A volte i genitori possono essere stati veramente tossici e violenti, anche in assenza di percosse e atti fisicamente lesivi.
Ma pure in questi casi, in cui è presente molto dolore, è possibile trovare il varco che porta alla costruzione della propria personalità indipendente, in grado di distaccarsi da quanto subito e sopratutto di trasformare l’esperienza negativa in consapevolezza, in forza e in atti di bene verso se stessi e gli altri.
Rovesciare il male in bene è possibile solo se il genitore è ridimensionato nel suo potere.
Molti psicoanalisti concordano nell’esistenza di uno sdoppiamento dell’immagine genitoriale. Esiste infatti il genitore “mentale”, costruito in età infantile e visto come un soggetto onnipotente e gigantesco, e quello reale, diversissimo dall’immagine impressa nella psiche del figlio.
In terapia, dopo aver trattato e preso molto sul serio il genitore “interiore” (che corrisponde al genitore dei traumi e delle ferite), via via secondo tempi e modalità variabili si promuove il passaggio al genitore “reale” , l’uomo o la donna in carne ed ossa, con tutto il loro correlato di debolezze, conflitti irrisolti, rigidità ma anche qualità e aspetti positivi.
Vedere il genitore non dal punto di osservazione del figlio ma da quello di un semplice essere umano gli toglie potere, lo fa decadere dal piedistallo e incentiva l’andare oltre (ossia dei passaggi di crescita).
Si può certamente vedere come l’immagine che abbiamo di noi stessi sia stata influenzata negativamente dalle parole dei genitori. Ma dietro a queste figure apparentemente onniscienti si nascondono in realtà persone con umanissimi difetti, condizionate a loro volta da visioni distorte, disturbate da fantasmi irrazionali, precocemente turbate da traumi o lutti non elaborati ecc…
Se una madre ad esempio ci ha sempre detto più o meno velatamente che siamo stupidi, inconsciamente ci sentiremo stupidi e saremo sempre orientati a voler dimostrare il contrario (magari diventando eccellenti in alcuni campi).
Le parole della madre infatti nell’infanzia suonavano come verità assolute.
Ma questa madre, vista oggi, da giovani adulti o da adulti più in là negli anni, si svela nel suo reale come una persona ansiosa, incapace di valutare le persone, in dubbio rispetto a se stessa e confusiva verso i suoi figli. Possono quindi essere ancora prese sul serio le parole dette da una persona con questi problemi? Non diceva magari a noi quello che pensava di se stessa?
Già in adolescenza per alcuni si innesca un simile processo correttivo di rivisitazione delle affermazioni genitoriali e delle convinzioni infantili.
Alcune persone addirittura riferiscono una lucidità impressionante nel “pesare” l’adulto fin da bambini, creando schermi protettivi già in età molto precoce.
Tutto questo significa che è possibile “respingere” l’identificazione patogena attraverso la messa a fuoco dell’altro reale, parallelamente alla sperimentazione di sé in altri contesti e in altre relazioni significative fuori dalla famiglia.
Smettere di essere figli e smettere di rivendicare è la via per la salute psichica.
Prendere atto che si è grandi e liberi
Rispetto all’esempio citato, una volta capito che stupidi non lo si è, bisogna “assumere” questa consapevolezza. Purtroppo infatti può essere più facile ripararsi dietro la supposta stupidità, per tutti i vantaggi secondari che questa comporta (non impegnarsi, essere compatiti perché poverini, cercare l’insuccesso per restare nella confort zone ecc…)
Invece “assumere” le scoperte che facciamo su di noi una volta tolte progressivamente le varie lenti distorcenti (insite nella posizione del figlio che guarda a se stesso tramite gli occhi dell’adulto che tutto sa) è fondamentale per non regredire e accomodarsi nella nevrosi (che si sostanzia sempre nel “vorrei ma non posso”, nel lamento, nella negatività, nella rabbia, nel dare sistematicamente le colpe agli altri ecc…)
Allora, dandoci da fare, scopriamo e rafforziamo nuove identificazioni, che nel tempo si rafforzano e diventano le vere bussole interiori alle quali affidarci nei momenti di difficoltà o in generale nei momenti topici della vita in cui siamo chiamati a compiere scelte importanti per il presente e per il futuro.
Procedendo così arriviamo ad un punto in cui sappiamo finalmente chi siamo, lo sappiamo noi, al di là delle etichette che ci sono state affibbiate in passato.
“Assumere” le scoperte che facciamo su noi stessi lasciando andare il passato comporta anche abbracciare la solitudine della non comprensione da parte dell’altro, accettarla serenamente come un fatto non modificabile e magari riderci anche su.
Non sono un po’ buffi quei genitori che continuano a pensare di avere la verità in tasca e di sapere tutto su di noi?
Smettere di cercare riconoscimento e approvazione è la prova del passaggio avvenuto verso l’emancipazione e la serenità mentale. Anche imparare a “lasciare dire” è un’altra grande conquista.
Tollerare la solitudine e renderla fertile tramite la nostra personale creatività ci fa compiere il passo finale, quello della trasformazione di un torto, di un dolore, di un evento traumatico incomunicabile in qualcosa di positivo, buono e utile agli altri e alla società.
Ma bisogna lasciare andare, perdonare, a volte anche non volerne parlare più.
Non a caso le analisi riuscite sono quelle che anche dopo molti anni di intenso lavoro finiscono definitivamente, senza più ritorni.
A un certo punto, come nei lutti pienamente elaborati, non se ne parla più perché non c’è più niente da dire.
Certamente si ricorda ma non se ne parla, non per tabù ma perché ormai quella pagina è stata davvero girata.