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L’empatia dello psicoterapeuta: cura e relazione terapeutica

Il libro e il mare - foto di Sibilla ulivi

Due figure di analista empatico

Una persona empatica “sente” le emozioni degli altri ed è in grado di costruirsi una "teoria della mente" del suo interlocutore.

L'empatia si esercita sia a livello emotivo che cognitivo, si traduce in un "cogliere" l'altro con accuratezza senza perdere se stessi e la propria obiettività. 

Lo psicoterapeuta, per essere tale, deve necessariamente essere empaticoegli percepisce lo stato emotivo dell’altro (senza scambiarlo per il proprio) e riesce a ricostruirne il funzionamento mentale.

L’empatia permette di lasciarsi “toccare” dal vissuto del paziente, non di lasciarsi “invadere” o “travolgere”. In questo contatto si riassume la cura.

Lo psicoterapeuta potrebbe essere paragonato a due personaggi: ad un appassionato lettore o a un sinuoso subacqueo.

Il primo anziché leggere libri “legge” le persone, con le orecchie al posto degli occhi. Il secondo invece che immergersi nel mare si inabissa nel mondo interno dell’altro, mondo affascinante ma non privo di pressioni.

L’analista "lettore"

Il lavoro di ascolto può essere equiparato a quello della lettura, lo stato di attivazione mentale ed emotiva è identico.

Come un lettore attento lo psicoterapeuta cade in stati di profonda concentrazione, si addentra nel testo aggrappandosi alle parole, che lo guidano e lo sostengono nella comprensione.

Quando leggiamo una storia tutta la mente è al lavoro perché più livelli sono simultaneamente attivi. Non abbiamo solo la comprensione razionale della trama ma anche tutta una serie di associazioni mentali per lo più inconsce (l’evocazione di sensazioni, ricordi ed emozioni) e di riflessioni in sovrappiù.

Nel leggere non siamo passivi recettori di informazioni, non ci limitiamo a prendere atto del contenuto. La lettura ci trasporta nel mondo costruito dallo scrittore tramite la sua sensibilità emotiva. Inevitabilmente veniamo in contatto con lui, con la sua interiorità, fatta di pensieri, visioni soggettive, emozioni, riflessioni, background culturali.

Questo contatto certamente non ci lascia indifferenti, stimola in noi delle reazioni e degli approfondimenti, dei rimaneggiamenti. Vogliamo capire bene, e allora rileggiamo, estrapoliamo il succo, spremiamo. In questo modo operiamo dei tagli nel materiale, che riassembliamo guidati dalle nostre doti di analisi e di sintesi nonché dalla nostra intuizione.

Quando leggiamo dunque “pensiamo” e “sentiamo” con tutta la nostra psiche, conscia ed inconscia; essa si attiva come un’orchestra.

Ci succede esattamente quello che accade a uno psicoterapeuta che ascolta il suo paziente con curiosità e attenzione. Egli legge, taglia, rielabora, e poi restituisce interpretazioni, suggerimenti, spunti di riflessioni non presenti nel testo ma frutto del suo lavoro di analisi.

Si capisce allora perché gli analisti siano tutt’uno col testo, restando però assolutamente loro stessi, distaccati.

Si è mai visto un lettore che si immedesima a tal punto da convincersi di essere il protagonista o l’io narrante della storia che legge? In caso di psicosi questo fenomeno può accadere, ma non nella normalità.

Semmai l’esperienza della lettura può risultare così intensa ed emozionante da confondere, stordire, far vacillare il senso di sè. Questo fatto accade anche al cinema: al termine di un film coinvolgente ci ritroviamo in stada un po’ frastornati, quasi ci sembra di ritornare da un altro mondo e ci vuole a volte qualche passo e qualche boccata d’aria per riconnettersi alla solita realtà.

Perdersi nella storia o nel film non è un male se, appunto, siamo in grado di ritornare in noi stessi. Essere andati “altrove” è proprio ciò che ci consente di dire qualcosa di soggettivo rispetto a ciò che abbiamo letto o visto.

L’analista si differenzia dal lettore non solo perché usa le orecchie al posto degli occhi ma anche perché interagisce direttamente con chi produce il discorso.

Può fare domande, chiedere approfondimenti, mostrare interesse, interpretare. Il suo essere entra direttamente in contatto con il libro, lo può interrogare e ne può essere interrogato.

Si crea dunque una relazione terapeutica bidirezionale, in cui entrambi guidano e sono guidati.

Il paziente è allora un libro “animato”, pulsante e vivo, e ciò può risultare angosciante, può fare paura. L’analista non si può nascondere, non può alzarsi e chiudere il libro, non ha vie d’uscita. Ed è costantemente interrogato dal libro che deve non solo capire ma anche aiutare a ridefinirsi e svilupparsi.

L’analista "subacqueo"

Ci vuole dunque molto sangue freddo. Per questo lo psicoterapeuta fa un grosso lavoro psicologico su se stesso. Per sopportare questo carico di angoscia nel rapportarsi con il libro animato che è il suo interlocutore egli ha bisogno di molto coraggio e di molta esperienza.

È necessario che si lasci andare, che si immerga con tutto il suo essere, ma nello stesso tempo deve restare vigile e separato dal mare in cui è sprofondato.

Lo psicoterapeuta è un lettore di un testo ma anche un suabacqueo in costante rapporto con l’acqua che lo bagna dappertutto. Perché l’acqua non lo ostacola nei movimenti, non lo annienta, benché gli sia addosso.

La capacità tecnica e l’innata acquaticità sono le armi di conquista e di sopravvivenza.

La tecnica si costruisce con lo studio e l’esperienza, mentre l’acquaticità è una naturale disposizione ad entrare in contatto con un mondo ricchissimo ma potenzialmente letale.

Essere acquatici significa essere empatici, ovvero disposti ad un contatto gentile, morbido, profondamente rispettoso dell’alterità.

Nell’empatia si viene toccati e si tocca, ma lo scambio è fluido, armonico, delicato, ognuno resta al suo posto nonostante la compenetrazione reciproca e la pressione che rischia di schiacciare.

Il mare accoglie se lo si sa prendere; il subacqueo può ripulire, fare interventi di manutenzione, salvare vite. Può guarire e risanare oppure inquinare e uccidere.

Anche l’analista potenzialmente è un pericolo per il paziente. Non sono poche le esperienze di abusi emotivi perpetrati da finti sommozzatori, non certo orientati genuinamente alla cura ma avidi di prede.

Ma il mare, prima o poi, riconosce e caccia gli intrusi, mentre le correnti impetuose ne rigenerano le acque.

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