Adhd - sindrome da deficit di attenzione e iperattività: esiste davvero?

Sindrome o sintomo? E se i bambini invece volessero dire qualcosa in un linguaggio “da bambini”?
L’Adhd (attention deficit/hyperactivity disorder) oggi è considerata come una sindrome vera e propria, cioè come una “deviazione dalla norma” dai contorni precisi e dalle possibilità di cura standardizzate.
Questa visione riflette purtroppo la tendenza verso la semplificazione e la schematizzazione che permea la cultura contemporanea. Si guarda la superficie, perdendo la visione della complessità e del reale in gioco nelle sofferenze emotive.
Andare oltre la comoda e sbrigativa tendenza nel ridurre i problemi complessi della psiche ad etichette rassicuranti appare invece necessario per ripristinare equilibri autentici negli adulti e nei bambini.
Certo, c’è da mettersi in discussione: i problemi dei bambini segnalano sempre fatalmente e precisamente quelli degli adulti. Una loro presa di coscienza può determinare un cambiamento di rotta salvifico nella cura del piccolo: non si tratta più di “gestire” il problema ma di riconoscersi umilmente parte in causa.
Brevi cenni storici: quando si diffonde il termine Adhd
La sigla Adhd compare per la prima volta nel 1987 all’interno del manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali DSM III - R, per indicare una sindrome infantile caratterizzata da iperattività e disturbo dell’attenzione.
Il problema dei bambini indisciplinati, oppositivi e impermeabili alle regole era oggetto di studio già dall’ottocento; nel 1954 erano già state testate le prime reazioni al Metilfenidato, il principio attivo del famoso farmaco Ritalin.
Negli Stati Uniti e ormai anche in Italia le diagnosi di Adhd fioccano in abbondanza. I bambini alla “Struwelpeter” (il famoso libro di filastrocche educative di Heinrich Hoffman in cui vengono ritratte le malefatte di un bambino iperattivo e impulsivo) sono sempre più numerosi, essi danno fastidio in famiglia e a scuola.
Ed ecco una sindrome "ad hoc" per ridurre le "piccole pesti" al silenzio, per adattarli senza sforzi alle esigenze degli adulti. A disposizione abbiamo persino lo psicofarmaco adatto, non esente da insuccessi nel lungo periodo e da sintomi collaterali.
Ma è eticamente corretto voler strappare un bambino da se stesso per renderlo ubbidiente e uguale agli altri? Esiste davvero il bambino perfetto? L'irrequietezza "innata" non nasconde anche una componente di originalità e di creatività?
Adhd: sindrome universale o sintomo particolare?
Di fatto i sintomi chiave della sindrome, mancanza di attenzione, impulsività ed iperattività, sono elementi comuni dell’infanzia, sono cioè tratti propri della natura del bambino.Molti bimbi “casinisti” non hanno nulla che non vada, sono semplicemente molto vivaci e mettono in crisi l’ordine degli adulti.
Un altro discorso invece merita l’impulsività sfrenata e senza limiti di sorta. Il fatto che gli elementi impulsivi si trovino esasperati in alcuni bambini va però letto come un sintomo, più che come una sindrome a se stante con tanto di etichetta e cura farmacologica.
Che cos’è un sintomo? Il sintomo è un comportamento umano “eccessivo” che, senza l’uso delle parole, esprime un malessere emotivo, un disagio interiore. Esso è come una spia rossa accesa, un segnale per l’altro.
Attraverso il comportamento molesto e svogliato il bambino ricerca l’attenzione da parte dell’altro, anche se sembra che non sia così e che il bambino se ne freghi di tutto e di tutti.
Il ricorso alla provocazione denuncia di fatto la disattenzione dell’adulto, che viene invocata perentoriamente proprio per mezzo della sfida continua e costante. Il bambino iperattivo sembra accentuare l’impulsività che gli è propria per rimarcare il suo statuto ontologico di “bambino”, creatura fatta di sensazioni forti, caotiche e disordinate, dominata da emozioni soverchianti per fronteggiare le quali non possiede ancora i mezzi intellettivi e culturali.
Dando noia all’altro, non ascoltandone i “no” e le prediche varie il bambino sembra dire: “amami così come sono! Io non sono perfetto! Non mettermi regole, non volermi cambiare, domani cambierò, abbi fiducia, ma oggi sono solo un bambino bisognoso di tolleranza!”
D’altro canto il cosiddetto “deficit di attenzione” rappresenta il rifiuto di un indottrinamento noioso, fine a se stesso, di cui non si afferra il senso.
La ribellione del non volerne sapere e il persistere della necessità del movimento e dell’azione (protrarre e intensificare il gioco all’infinito per sfuggire in ogni modo al fatidico momento dei compiti) può perfino indicare una possibile traccia di depressione infantile, ancora sotto soglia e non ben strutturata (come tutti i malesseri dell’anima dei piccoli).
Il bambino iperattivo: la caoticità e l'ipercontrollo nell'adulto
Quando guardiamo da vicino l’ambiente dei "bimbi chiassosi" troviamo spessissimo adulti iper bisognosi di controllo. L’esasperazione del controllo è tipicamente un fenomeno che si vede nell’adulto ancora preda del proprio caos interiore, dei propri problemi emotivi irrisolti.
Allora l’esigenza “che non voli una mosca” si spiega così: al bambino è chiesto di essere e di realizzare ciò che l’adulto non è riuscito a raggiungere, ovvero un equilibrio psicologico non basato su difese rigide. Non solo, a volte paradossalmente ci si aspetta proprio da lui quella gratificazione che la vita non ha offerto altrove.
La reazione del piccolo è di protesta: come posso ubbidirti se la tua parola è vuota, se tu mi chiedi di impersonare qualcosa che tu stesso non sei affatto?
Stesso discorso per la scuola. Gli insegnanti si lamentano, segnalano, mandano dallo psicologo. Ma si fanno mai delle domande sulla loro autorevolezza sostanziale? Perché un bambino dovrebbe seguire proprio le loro lezioni? Perché dovrebbe tenere da conto le loro minacce?
Una cura per l'Adhd: imparare a vedere oltre la superficie
Raramente i genitori e gli insegnanti che “vedono”non riscontrano una qualche diminuzione dell’oppositività.
Far finta di nulla oppure usare l’autoritarismo sono i due fallimenti principali degli adulti di fronte alla chiamata del bambino indisciplinato e svogliato.
Da un lato la protesta viene fatta cadere nel vuoto, e peró per questa via autorizzata come norma, dall’altro essa viene sedata con violenza.
La violenza contemporanea, visto che i bambini non vengono più picchiati, prende le sembianze dello psicofarmaco oppure della stessa psicoterapia (intesa come pratica di colpevolizzazione e di adattamento uniformante e livellante della particolarità del bambino).
La psicoterapia più che venire esercitata sul bambino dovrebbe essere abbracciata dall’adulto, per capire ciò che gli sfugge della dinamica relazionale in cui si trova implicato.
L’adulto di riferimento ha bisogno di imparare e di capire che da lui dipende tutto. Ha bisogno di crescere interiormente, per poter essere all’altezza del compito genitoriale, per poter garantire al figlio un ambiente emotivo sano e sereno. La parola può via via prendere il posto del sintomo: si può imparare a dire quello che non va senza forzature, ritorsioni e violenze.
Un rischio severo nella perpetrazione degli atteggiamenti di negazionismo del problema o di repressione forzata (che spesso si alternano come due estremi nella condotta dello stesso genitore) è lo sviluppo nel piccolo di problematiche più serie, spesso di natura narcisistica e depressiva.
Il negazionismo porta il bambino a sviluppare tratti di narcisismo patologico: egli ha bisogno di creare ai propri stessi occhi un’immagine perfetta, per compiacere l’altro che non vuole vederlo nella sua imperfezione e per rammendare l’immagine lesa di sè. Rifugiarsi in fantasie di onnipotenza appare come la soluzione alla mancanza di amore incondizionato.
Mentre la repressione violenta può dare adito a sintomi depressivi: il bambino diventa ubbidiente ma spento, privo di carica vitale; egli si rifugia allora nel vuoto mondo del virtuale, lontano dall’altro reale. La deprivazione di contatto umano vero appiattisce in un’indifferenzaclinicamente preoccupante.
Andare oltre tutto questo è ancora possibile, a patto che la famiglia non deleghi altrove il proprio compito di accogliere, vigilare, amare.
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