La famiglia incestuosa
Esistono famiglie che in psicoanalisi definiamo “incestuose”, sebbene nel reale non avvenga nessun abuso sessuale. L’incesto si consuma per così dire a livello inconscio, nella misura in cui il legame fra i genitori e i figli (soprattutto quello con la madre) resta troppo stretto, non si ridimensiona cioè con il tempo.
Pur passando attraverso la crisi adolescenziale, i soggetti cresciuti in queste famiglie restano “eterni adolescenti”, arrivano cioè a diventare dei giovani adulti senza riuscire a distaccarsi davvero dalle figure genitoriali. Nonostante le ribellioni apparenti continuano ad averne bisogno, a riferirsi a loro per le scelte importanti, a rifugiarsi tra le loro braccia quando vengono lasciati dal fidanzato, a replicare i loro atteggiamenti, a sentirsi in colpa ogni volta che agiscono di testa propria o danno un dispiacere all’amato genitore.
Perché dunque il legame edipico non si risolve? È il genitore che non lascia andare o il figlio che non riesce a diventare pienamente indipendente? Quale la causa e quale l’effetto?
La madre insoddisfatta
In ogni situazione di questo tipo appare in filigrana lo stesso schema di fondo: una madre insoddisfatta del marito e un figlio collocato spesso fin dalla nascita nella posizione del partner sostitutivo della madre. Ogni espressione di autenticità viene sistematicamente disincentivata fin dalla più tenera età, nel nome di un adeguamento alle aspettative materne.
Il punto cruciale è dunque la ricerca di soddisfazione da parte della madre nel figlio: soddisfazione dell’affettività, dei bisogni d’amore frustrati, dei sogni non realizzati. L’amore materno, solerte nelle cure e nel dare, svela un indicibile fondo egoistico. Tutto ciò che viene dato ha la finalità di rendere l’altro conforme alle proprie attese. La manifestazione d’affetto non è incondizionata, non valorizza la differenza dell’altro (considerata invece come fastidiosa e urtante) scadendo così in un’elargizione di un premio in risposta ad un comportamento da bravo bambino.
Così, quando il figlio dimostra la sua irregolarità rispetto al modello ideale, nella madre compaiono atteggiamenti di delusione, di rifiuto e di critica, che instillano alla lunga sia l’idea di “dover essere” in un certo modo per risultare amabili e degni di valore, sia di aver bisogno della guida perenne dell’adulto per distinguere il bene dal male.
I tentativi di ribellione, stroncati sul nascere, vengono auto squalificati come segno di una propria cattiveria ed egoismo. In tal modo restano delle manovre separative tanto disperate quanto inefficaci a produrre un’ autentica presa di consapevolezza del proprio stato di “sottomissione”, che permane senza nessuna autorizzazione a essere se stessi e a credere nel proprio modo di vedere le cose.
La dipendenza
Si instaura così una profonda dipendenza, che colloca la madre nell’inconscio come il vero partner del soggetto. Allora il bambino, una volta adulto, ripeterà con i partner lo stesso schema relazionale, si approccerà a loro con la stessa modalità. Sia donne che uomini collocheranno il marito o la moglie nel luogo della madre da soddisfare, con tutto il carico di aggressività e di circoli viziosi conseguenti. Perché, se da una parte risulteranno dominati da un tratto passivo aggressivo, dall’altra tenderanno a riproporre all’altro la stessa modalità carica di attese con cui sono stati cresciuti.
Spesso lasceranno addirittura che la madre si intrometta nelle loro questioni personali, saranno influenzati dal suo giudizio e dai suoi desideri. Non di rado, quando il matrimonio irrimediabilmente va incontro ad una crisi, questi soggetti tornano dalle proprie madri, tornano cioè a casa. Anziché provare a farcela da soli, adducendo motivazioni economiche si rifugiano nel caldo grembo materno, dal quale non sono mai pienamente usciti.
E i padri?
I padri in questi scenari sono uomini che per vari motivi non hanno saldamente agganciato le loro donne su un piano di desiderio, o perché interessati ad altro (presi dal lavoro, da un’altra donna ecc..) o perché direttamente scartati dalle mogli. Sono quindi figure sbiadite, criticate, messe alla berlina, sia che si tratti di padri autoritari che di padri permissivi.
È infatti la parola della madre a far esistere il padre, e se questa sistematicamente va nella direzione della demolizione o della squalifica della sua figura, anche nell’inconscio del figlio accadrà lo stesso. Odio o indifferenza saranno la cifra del rapporto con il paterno, oggigiorno sempre più ridotto al rango di madre di serie b.
Il perno fondamentale su cui far leva per una liberazione dalle grinfie materne viene drasticamente meno. La così detta “funzione paterna” (che a rigore può essere impersonata da qualsiasi evento che distolga la presa della madre sul figlio ma che tendenzialmente viene incarnata dal padre reale) è messa fuori gioco, annullando ogni regolazione delle distanze fra madre e figlio. Venendo meno questi limiti, spariscono tutti i freni alla consumazione di un rapporto inconsciamente incestuoso: il figlio resta alla mercé della madre.
Un traguardo ambizioso di un percorso terapeutico è il recupero di una soggettività liberata dalle sabbie mobili del materno. Allora il luogo della terapia sarà incaricato di supplire alla funzione paterna indebolita, fungendo da quel terzo che è venuto a mancare. Non sarà il terapeuta in carne ed ossa a fare da padre, bensì il lavoro portato faticosamente avanti nella stanza d’analisi, spazio neutro in cui finalmente poter pensare.